Dopo una notte di un riposo sorprendentemente buono, è arrivata finalmente la giornata della salita alla Cima Tosa. La sveglia non è nemmeno selvaggia, sono infatti le 6:30 quando ultimo fra i presenti in camera decido di scendere a fare colazione. Il caffè servito è di quello tipo all’americana: tazza gigante di almeno un quarto di litro. Sapendo la faticaccia che mi aspetta, mi ingozzo di pane burro e marmellata fino a scoppiare per mettere “benzina nel motore” e una volta terminato esco nella spianata che ospita il rifugio. La luce del sole mattutino che illumina il Brenta e l’aria di una freschezza impareggiabile, inevitabilmente danno la carica per completare i preparativi per la partenza. La cosa a cui presto più attenzione è di lasciare al rifugio tutto, ma proprio tutto quello che non serve, per cercare di alleggerire al massimo il peso da portare appresso.
Sono circa le 7:20 quando parto attaccando il sentiero Brentari, per recarmi alla base della via normale della salita alla cima. Porto ancora con me le incertezze legate al fatto di salire da solo quei 30 metri di arrampicata di cui tante volte ho letto sulle varie relazioni. In cuor mio spero che una volta arrivati alla base della parete incontrerò qualcuno in modo da potere farmi assicurare e salire con meno patemi d'animo. Il sentiero per arrivare ai circa 2850 metri dell’attacco è tutto sommato breve e in neanche un'ora compare davanti ai miei occhi un asterisco rosso, pitturato su di un grande sasso che indica la via per la cima. Durante il tratto di avvicinamento sul sentiero vedo transitare dietro a me diverse persone e quindi spero vivamente di trovare qualcuno che possa fare una cordata classica con me. Ma le persone che transitano, al bivio per “la normale” tirano tutte diritto sul sentiero, probabilmente con obiettivo il rifugio Dodici Apostoli.
Dopo 20-25 minuti di attesa invano, mi rassegno: devo iniziare a pensare alla manovra di autoassicurazione se voglio davvero arrivare in cima, in libera pura non me la sento. In mattinata il gestore del rifugio Pedrotti mi ha consigliato di salire su una nuova linea chiodata da lui proprio quest'anno, che dal punto vista di tecnico mi viene definita di grado III, a differenza del grado II+ di quella vicina sul camino che si vede a sinistra. Tuttavia la via consigliata dal gestore, sebbene di grado superiore, presenta tre chiodi in successione abbastanza vicini fra di loro, direi a circa 4 metri uno dall’altro, ma sopratutto bene in vista e questo mi pare un elemento importante. Tiro fuori la corda dallo zaino e la aggancio al fittone alla base della parete, e decidendo di procedere per la via consigliata per gradi, tenendo a portata una maglia rapida in modo che se arrivato ad un chiodo, decidessi di tornare indietro in corda doppia potrei farlo senza alcun problema.
Arrivare al primo chiodo è realmente semplice, aggancio il rinvio al chiodo e sul capo libero della corda rinviata applico il nodo autobloccante prusik. Il primo passo è fatto! Il secondo chiodo è bene in vista e anche l'arrampicata per arrivarci non sembra particolarmente difficile. Con molta attenzione proseguo e ci arrivo rilassato. Rinvio anche su questo la corda e sono quasi a metà del primo tiro. I passaggi per il terzo chiodo sembrano i più difficoltosi, ma in realtà è la percezione data dal pensiero di essere solo e in auto sicura che mette un po' di soggezione. Dopo un attimo di scrupolosa osservazione mi pare di cogliere una serie di appoggi che dovrebbero garantire una salita in sicurezza. Non essendo come ho già scritto un grande coraggioso, raccolgo le forze e con grande soddisfazione arrivo al terzo chiodo dove posso nuovamente rinviare. Da lì vedo la sosta intermedia della via e arrivarci è quasi un gioco da ragazzi. Mi assicuro alla sosta e con grande piacere ho in vista diretta anche la sosta successiva che è anche la fine della via. I passaggi sembrano davvero semplici, e decido quindi di puntare direttamente al fittone, dove arrivo facile. E’ fatta! Predispongo la piastrina per la discesa in doppia durante la quale recupero i rinvii. Arrivato al punto base di partenza sgancio la corda e con la sicura del nodo autobloccante sui due rami di corda che ora scendono dall’alto salgo in un attimo nuovamente in cima ripetendo la via, ma questa volta con la scioltezza regalata dalla tranquillità di una sicura dall’alto. In sommità recupero tutta la corda, la ripongo ordinatamente nello zaino e sono pronto per affrontare i restanti circa 300 metri di dislivello che separano dalla cima.
Se si pensa di essere arrivati finito il tratto di arrampicata, ci si sbaglia di grosso, c’è da faticare ancora parecchio. La salita richiede la costante ricerca visiva dei cosiddetti “ometti” di roccia: dei mucchietti di sassi a vista posati con lo scopo di indicare la giusta via. Non si presentano difficoltà particolari, ma guardando verso il basso, ho la sensazione che se si dovesse scivolare, specie in certi punti, non ci si fermerebbe tanto velocemente. Quindi sempre massima concentrazione, credo che molti incidenti in montagna avvengano per distrazioni, ma su questo aspetto sono tranquillo perché quando salgo non faccio mai calare il livello dell’attenzione. Dopo una mezz’ora la pendenza inizia a diminuire, fino praticamente a spianare su un grande terrazzo sassoso, dove non vi è la quasi minima presenza di neve e ghiaccio, se non in qualche fenditura più protetta dai raggi solari. Quest’estate torrida ha lasciato il segno.
In lontananza scorgo due ragazze su un piccolo rilievo rispetto al pianoro, che capisco essere la cima.
Non mi vergogno per nulla nello scrivere che l’emozione è forte. Tipica di quando porti a compimento un progetto a cui pensi da anni e che ti era sempre sfuggito di mano.
Sono circa le 10.45 e arrivo in vetta alla Cima Tosa. Il panorama per tutti i 360 gradi è strepitoso, impareggiabile. Di foto ne avevo viste tante, ma essere lì di persona è davvero tutta un’altra cosa. Dopo pochi minuti le due ragazze partono per la discesa e ho quindi il privilegio di stare da solo in cima alla regina del Brenta in un silenzio che quasi smarrisce, anche commuove.
Ci passo circa un’ora e mezza, ma non mi stufo per nulla, continuando a guardarmi attorno, incantato da tanta incontaminata bellezza. Alle 12.30 circa, dopo essermi rifocillato, mi incammino per il ritorno al rifugio.
Mi viene da salutare la montagna, rispettosamente, quasi a farmi promettere da Lei che almeno un’altra volta mi accoglierà di nuovo e che un giorno tornerò lassù, dove ti pare ti toccare il cielo e la mente vola leggera e felice.
Scendo fino alla sosta superiore della parete verticale e con manovra in corda doppia mi calo nuovamente alla base del salto di roccia. Recupero corda e materiale e imbocco all'incontrario il sentiero Brentari per tornare al rifugio Pedrotti. Ho finito acqua e sali da bere e sudando ancora come un cammello ho una sete mostruosa. Verso le 14.00 sono di ritorno al rifugio dove mi “lancio” a bere, appunto, come un cammello.
Gran parte dell’avventura è andata, e come sempre mi capita in questi frangenti provo una grande gioia per essere riuscito, e un filo di malinconia perchè è quasi tutto finito.
Mi prendo un’ora e mezza comoda per riposare, godermi il panorama comodamente seduto su una panchina del rifugio, salutare il gentilissimo personale, per poi incamminarmi per la discesa. In circa 2 ore sono al parcheggio Val Biole e questa volta la “spedizione” è davvero finita.
E’ stato bello, bellissimo, lo ricorderò a lungo. Un ringraziamento particolare ad Angelo, senza le sue indicazioni, e la corda leggera che mi ha prestato, non sarebbe stato possibile.
Spero che questo pezzo, eccezionalmente in due puntate (così festeggiamo anche il decennale del blog), sia di stimolo per qualche lettore per pensare di fare questa salita. Ne vale davvero la pena.